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mercoledì 27 gennaio 2010

La riforma Gelmini: come migliorare gli atenei a costo zero

Come vola il tempo! A distanza di un mese dal mio ultimo post, oggi pubblico un articolo sulla riforma Gelmini che ho scritto per il giornale della mia associazione studentesca!

La situazione delle università italiane è sempre stata tra le più disastrose d’Europa. Ormai si può dire che l’ipoalimentazione dal punto di vista finanziario rientri strutturalmente nella storia delle università pubbliche italiane che da più di 35 anni ricevono un quarto in meno, in termini di bilancio statale, di quello che ricevono mediamente le restanti università europee.
Nonostante questa situazione preoccupante e per certi versi anche imbarazzante, se si considera la reputazione estera degli Italiani come popolo di cultura, la riforma Gelmini ha optato per un coraggioso taglio dei fondi volto al miglioramento, allo stimolo e alla competizione fra gli atenei. Questo perché nei fatti la scarsità dei fondi non viene vista dai nostri politici come un grave dramma delle università italiane, che anzi possono esserne ulteriormente private controbilanciando con una governance innovativa rispetto alla situazione attuale. Poco importa se la riduzione annuale, fino al 2013, del fondo di finanziamento ordinario, con il drastico taglio delle spese di funzionamento del 46% al netto degli stipendi, porterà via dalle università 1,5 miliardi in pochi anni provocando, secondo l’economista Francesco Giavazzi, la chiusura della maggior parte delle università, se queste non faranno ricorso a capitali privati attraverso la trasformazione in Fondazioni, con tutte le conseguenze in termini di perdita di libertà e autonomia, oltre all’inevitabile subordinazione della formazione culturale alla logica economica di stampo capitalistico dell'utile immediato. L’ambiziosa riforma aspira a cambiare radicalmente gli assetti di funzionamento e governance: innanzitutto i bilanci delle università dovranno rispondere a criteri di maggiore trasparenza con l’aggiunta di un direttore generale che gestirà come un vero e proprio manager tutta la parte amministrativa e contabile; sarà inoltre adottato un codice etico per evitare incompatibilità e conflitti di interessi e i rettori avranno un limite massimo complessivo di 8 anni per il loro mandato, inclusi quelli trascorsi prima delle riforma. È prevista una netta distinzione tra Senato accademico e CdA in quanto il Senato avanzerà proposte di carattere scientifico, ma sarà il CdA ad sostenere la responsabilità delle spese, anche delle sedi distaccate. Il numero dei membri del Senato passerà a 35 contro gli attuali 50, mentre quelli del CdA scenderanno da 30 ad 11 con il 40% dei membri esterni. Saranno dimezzati i settori scientifico-disciplinari ed una Commissione nazionale, con membri anche stranieri, dovrà abilitare i partecipanti ai concorsi attraverso la valutazione dei curricula e delle capacità in base a parametri predefiniti che ne determineranno l'assunzione nelle università, mentre i docenti dovranno lavorare 1500 ore annue di cui almeno 350 per docenza e servizi agli studenti. I drastici tagli alla ricerca faranno scappar via i migliori cervelli all'estero e i pochi fondi ancora disponibili saranno dati in parte maggiore ai ricercatori considerati “più in gamba” secondo criteri ignoti. Inevitabilmente la mancanza di fondi negherà l'accesso alle università ad una considerevole parte della popolazione, perché le università per riassestare i bilanci saranno costrette in un primo momento a triplicare le tasse e poi, vista la diminuzione di iscrizioni, ad “amputare” corsi e facoltà. I flebili miglioramenti amministrativi, per giunta soffocati da una quantità eccessiva di condizioni e parametri numerici, hanno ben poche possibilità se non nessuna di riportare gli atenei italiani allo standard delle università dei cosiddetti “Paesi ricchi” ma, anzi, di peggiorarli ulteriormente.

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